giovedì 25 ottobre 2012

Non sono i cittadini a servire i politici o la legge


di ENZO TRENTIN
Probabilmente i presupposti tecnologici ed educativi per la democrazia non sono mai stati soddisfatti come lo sono oggi. Non ci sono motivi ragionevoli per il mantenimento di una categoria di persone (politici o élite politica) meglio attrezzata per decidere sugli affari pubblici rispetto agli altri (i cosiddetti “cittadini ordinari“). Nonostante questo, persiste quest’idea: che non solo non spiega nulla; essa stessa ha bisogno di spiegazioni. Secondo questa tesi, le persone approverebbero solo ciò che giova ai loro propri interessi, dimostrando una mancanza di responsabilità nei confronti dell’intera comunità o società, con conseguenze distruttive. Ad esempio, voteranno per abolire le tasse e al tempo stesso aumentare la spesa pubblica.
Nella realtà, da un punto di vista finanziario, i cittadini sono più responsabili dei politici. I vasti debiti pubblici che esistono ora nella maggior parte dei paesi occidentali, ad esempio, sono stati accumulati contro la volontà popolare. Indagini, condotte nell’arco di diverse generazioni in Germania e negli Stati Uniti, mostrano che una maggioranza stabile dei due terzi della popolazione è a favore di un bilancio pubblico che rimanga equilibrato anche a breve termine [Cfr. «Bilancio equilibrato», vedere: R.K. von Weizsäcker (1992), «Staatsverschuldung und Demokratie», Kyklos 45, pagg. 51-67]. Pertanto l’accumulo di una montagna di debiti è il risultato di una politica contraria alla volontà della maggioranza. La gente non gradisce essere oppressa da provvedimenti che saranno necessari per ridurre tali montagne di debiti [Cfr. A.S. Blinder / D. Holtz-Eakin (1984), «Public opinion and the balanced budget», American Economic Review 74, pagg. 144-149].
La ricerca ha mostrato che l’accumulo di un deficit pubblico è strettamente connesso allo schieramento dei partiti politici in un Paese. Ecco alcune osservazioni empiriche: maggiore è la polarizzazione all’interno di una coalizione multipartitica, maggiore è la tendenza ad accumulare debito; più è probabile che un governo perda le prossime elezioni, tanto maggiore è la tendenza ad accumulare debito; più è breve la durata media di un governo in carica, tanto maggiore è debito accumulato; più ci sono partner nella coalizione di governo, maggiore è la tendenza ad accumulare debito. [Cfr. N. Roubini / J. Sachs (1989), «Political and economic determinants of budget deficits in the industrial democracies», European Economic Review 33, pagg. 903-933 la cui ricerca ha riguardato paesi dell’OCSE durante il periodo dal 1960 al 1985; altri riferimenti nel sunnominato von Weizäcker, 1992]. Tali osservazioni dimostrano che il pensare a breve termine dell’élite politica gioca un ruolo centrale nell’accumulo del debito nazionale: il debito viene accumulato, si può dire, per comprare voti. Von Weizäcker (1992) pertanto è a favore dell’attuazione di un referendum obbligatorio prima che il debito nazionale venga contratto.
Un gruppo di economisti e scienziati della politica delle Università di Zurigo e San Gallo, tra i quali Feld e Matsusaka [Cfr. L.P. Feld / J.G. Matsusaka (2003), »Budget referendums and government spending: evidence from Swiss cantons», Journal of Public Economics 87, pagg. 2703-2724] hanno esaminato come gli elettori decidono nei referendum sulla spesa pubblica in Svizzera. In molti cantoni, la spesa pubblica viene sottoposta a un «referendum finanziario» obbligatorio. Ogni singola spesa del settore pubblico, sopra ad una certa somma (la media è di 2,5 milioni di franchi svizzeri), deve essere approvata individualmente mediante un referendum. Feld e Matsusaka hanno scoperto che i Cantoni dotati di questo tipo di referendum obbligatorio spendono il 19% in meno dei Cantoni che ne sono sprovvisti (le cifre si riferiscono al periodo dal 1980 al 1998).
Matsusaka riscontrò lo stesso effetto per gli Stati americani, analizzando sistematicamente tutti i dati disponibili per l’intero XX secolo. Gli Stati con l’iniziativa popolare sembrano spendere il 4% in meno a livello statale di quelli senza. Inoltre, sembra che più è facile lanciare una iniziativa popolare, più l’impatto è grande: negli Stati dove la soglia di sottoscrizione è più bassa, la spesa pubblica era il 7% inferiore a quella degli Stati senza l’iniziativa popolare, considerato che l’impatto negli Stati con le soglie di sottoscrizione più elevate era quasi pari a zero. A livello locale, l’iniziativa popolare ha condotto ad una spesa più elevata, ma nel complesso l’effetto netto è stato un calo della spesa pubblica [Cfr. J. G. Matsusaka (2004), «For the Many or the Few. The Initiative, Public Policy, and American Democracy» University of Chicago Press, pagg. 33-35].
La democrazia diretta porta anche a imposte più basse. Quando il referendum d’iniziativa popolare è disponibile in un dato Stato, questo porta ad una riduzione d’imposta di 534 $US per una famiglia di quattro persone, che corrisponde pressapoco al 4% dell’introito pubblico. La differenza è significativa, ma non drammatica in valore assoluto e non si può dire, solo in base a questo, che lo Stato diventi ingovernabile [vedasi sopra: Matsusaka, 2004, pagg. 33-35]. Pertanto, sebbene diminuiscano contemporaneamente sia la spesa pubblica che le tasse, l’effetto netto rimane un calo dei disavanzi di bilancio. Feld e Kirschgässener (dello stesso gruppo di scienziati sunnominato) nel 1999 hanno esaminato l’effetto dei referendum obbligatori sui bilanci di 131 delle più grandi città e Comuni svizzeri. Scelsero di confrontare i Comuni e non i Cantoni, perché i Comuni dispongono di un margine di manovra in materia di bilancio anche più grande dei Cantoni, che già è considerevole. Scoprirono che la possibilità di ricorrere ai referendum obbligatori sul bilancio ebbe un forte effetto sulla riduzione dei disavanzi. Kiewitz e Szakali (idem c.s.) nel 1996 erano giunti alle stesse conclusioni per gli Stati Uniti.
Inoltre non corrisponde certamente al vero affermare che, se sono all’ordine del giorno questioni fiscali, i cittadini scelgano, per definizione, di abbassare le tasse. Piper [Cfr. B. Piper, 2001, «A brief analysis of voter behaviour regarding tax initiatives, from 1979 to 1999», Washington: Initiative & Referendum Institute] ha mappato tutte le iniziative popolari relative alle tasse negli Stati americani dal 1978 al 1999; negli USA i referendum facoltativi non svolgono un ruolo significativo. Ci sono state 130 iniziative popolari sulle imposte, di cui 86 chiedevano una riduzione di tasse, 27 per aumentarle, mentre 17 rimasero neutrali sulla aliquota di tassazione. Tra le iniziative popolari per ridurre le tasse, il 48% sono state approvate, ossia meno della metà. Tra le iniziative popolari che invece domandavano un aumento delle tasse ne sono state approvate il 39%. La differenza è dunque piccola e le percentuali girano intorno alla media delle probabilità di successo delle iniziative popolari negli Stati Uniti, che è del 41%. Anche in Svizzera gli elettori approvano regolarmente gli aumenti d’imposte necessari. Nel 1993, venne approvata una tassa supplementare sulla benzina di 0,2 franchi svizzeri al litro (all’incirca 0,14 euro) dopo un precedente aumento nel 1983, che era stato anch’esso approvato mediante referendum. Nel 1984 furono approvate con referendum nuove tasse per le autostrade e la circolazione dei camion.
La California viene spesso esplicitamente citata come un posto dove i cittadini hanno preso decisioni finanziarie irresponsabili con i referendum. Ad esempio, si è sostenuto che le iniziative popolari hanno bloccato così tanto una parte del bilancio californiano ed allo stesso tempo congelato la possibilità di introdurre nuove tasse, che alla fine i politici non hanno più avuto un margine di manovra sufficiente. Matsusaka (Cfr. J. G. Matsusaka, 2005, «Direct democracy and fiscal gridlock: have voter initiatives paralyzed the California budget?» State Politics and Policy Quarterly 5, pagg. 248-264) ha controllato tale asserzione e ha concluso che, dopo quasi un secolo di democrazia diretta, il 68% del bilancio californiano era stato determinato dal sistema rappresentativo e che la possibilità d’introdurre nuove imposte non era soggetta a restrizioni.
Malgrado la pesante responsabilità per la cattiva situazione finanziaria della maggior parte dei paesi occidentali (come risulta da quanto sopra), i politici riescono ancora ad invertire ruoli e responsabilità. Per esempio: il senatore belga Hugo Vandenberghe ha difeso la sua contrarietà ai referendum con le seguenti parole: «Le gente non deve prendersi alcuna responsabilità per le sue decisioni. Può decidere con assoluta leggerezza di tagliare le tasse e due settimane dopo aumentare i contributi sociali.» (De Standaard, giornale belga, 19 dicembre 1992). Ovviamente la verità è esattamente l’opposto: alla fine è sempre la gente a pagare per i conti fuori controllo, sotto forma di aumento delle tasse, il peggioramento dei servizi pubblici, etc.. Nei sistemi rappresentativi i singoli politici, che sono quelli che decidono la pressione fiscale e il debito pubblico, non pagano mai personalmente le conseguenze delle loro decisioni. Non hanno mai restituito un solo centesimo della spesa che i cittadini non avevano mai richiesto o che causa il debito pubblico.
Dopo la scadenza del loro mandato – possibilmente ricompensati con una buonuscita o con un generoso bonus – ritornano semplicemente al loro abituale lavoro politico di partito. In seguito possono tirar fuori una sarabanda di argomenti più o meno plausibili per motivare le loro decisioni, ma il danno è già stato fatto, senza nessuna garanzia che i loro successori faranno qualcosa di migliore. Infatti, il senatore Vandenberghe – senza rendersene conto – pone l’accento su una argomentazione fondamentale a favore della democrazia diretta: poiché sulla gente ricadono sempre le conseguenze delle decisioni sul bilancio e le imposte, è del tutto logico che la gente abbia l’ultima parola su tali decisioni.
Ad ogni politico dovremmo ricordare una volta per tutte le parole di Tucidide (nato nel 460 a.C. ad Atene e morto nel 395 a.C.) che da Cicerone è definito “storico degno di fede”. Egli scrisse [II, 37]:  «Si chiama democrazia perché il potere non è nelle mani di pochi, ma dei più.» Non è dunque la presenza dei partiti politici che fa la democrazia, anzi, è l’esercizio della sovranità del popolo che la determina. E mentre la Costituzione italiana sancisce tale “sovranità” popolare, in nessuna sua parte stabilisce che essa è poi delegata ai “rappresentanti” politici. L’autorità del popolo, in democrazia, non dipende affatto da sue presunte qualità sovrumane come l’onnipotenza e l’infallibilità. Dipende invece dalla ragione esattamente contraria, dall’assunzione cioè di tutti gli uomini, e del popolo tutto intero, come necessariamente limitati e fallibili. È dunque possibile che il popolo – o meglio la sua maggioranza – sbagli, ma deve sempre essere messo nella condizione di ritornare sulle proprie deliberazioni. Altrimenti non è democrazia, ma tirannia.
La premessa della democrazia è l’abbandono dell’illusione che la giustizia sia a portata di mano e l’accettazione realistica che si sia tutti continuamente carenti rispetto al compito comune. Se, ciononostante, continuiamo a dare fiducia all’autorità popolare, è perché qualunque altra soluzione sarebbe peggiore di questa. In mancanza di riferimenti obiettivi, chi potrebbe infatti immaginare la sottomissione di una parte del popolo a un’altra parte, motivata dal riconoscimento delle altrui maggiori virtù? Chi, nella sfera politica, riconoscerebbe il proprio minor valore rispetto ad altri? Ove un confronto non solo verbale su questo terreno prendesse piede, sarebbe la guerra civile e la risoluzione del conflitto non dipenderebbe dalla preponderanza del meriti ma dalla prepotenza della forza. Per aver voluto instaurare il regno dei migliori, ci troveremmo col governo del più forte.
È evidente che i politici professionisti formano un gruppo che può trarre profitto dalla sua superiore posizione di potere. L’immagine collettiva che essi hanno di se stessi e degli altri può produrre risultati diversi. Possono essere utilizzati per giustificare lo status quo. Aumentano l’autostima di coloro che vedono se stessi come “élite” e inferiore l’autostima dei cosiddetti “cittadini ordinari” che sono classificati come non appartenenti al cerchio incantato delle “élite”. In una democrazia puramente parlamentare i politici godono di un monopolio, una serie di fonti di energia; soprattutto, il diritto di prendere decisioni importanti sulle questioni sostanziali e per determinare l’agenda politica. È loro l’accesso esclusivo a queste fonti di potere che fornisce la base per lo squilibrio di potere tra i politici e i cittadini. Il loro è un rapporto di disuguaglianza categoriale istituzionalizzato. Esso determina in pratica la divisione dei ruoli: i cittadini eleggono e politici decidono. Colpisce ancora l’uso della lingua. Un esempio spettacolare lo si riscontra in Finlandia: in finlandese lo  descrivono con le parole “cittadino” (kansalainen) e “decisore” (päättäjä) due categorie di persone che si escludono a vicenda.
In una democrazia diretta, cittadini e politici sono interconnessi e interdipendenti in modo sostanzialmente diverso rispetto a un parlamentarismo puramente democratico. In una democrazia diretta, i cittadini condividono il processo decisionale e spesso hanno l’ultima parola. Hanno ripetutamente l’opportunità di agire come politici e di diventare ciò che Max Weber ha chiamato “politici occasionali“. Grazie ai loro diritti di iniziativa e di referendum, gli elettori hanno accesso al processo decisionale politico e alla determinazione dell’agenda politica. I politici eletti non sono in grado di monopolizzare le decisioni del potere politico, ma di condividerle con i cittadini. La concentrazione di politica e fonti di potere nelle mani di una piccola minoranza di politici professionisti è quindi severamente limitata.
A sua volta, l’equilibrio di potere colpisce di più i politici di quanto avvenga per  i cittadini. La vecchia immagine del cittadino incompetente sfuma nel passato e viene sostituita da un’immagine del cittadino come qualcuno che è più maturo, più responsabile, politicamente più competente e più sicuro di sé. Allo stesso tempo cambia anche l’immagine dei politici; da nobili sfere vengono portati a condividere la stessa realtà terrena con tutti altri. I politici, tuttavia, da questo cambiamento, da questa perdita di potenza e di status, ricevono un guadagno di empatia e di umanità. Nel sistema di democrazia diretta, il rapporto istituzionalizzato tra cittadini e politici è diverso da quello puramente parlamentare. L’assenza di disuguaglianza come in precedenza evidenziato salta agli occhi anche  nel linguaggio. Il concetto di “cittadino” include l’idea del diritto al diretto coinvolgimento nelle decisioni politiche. I cittadini e i legislatori non possono essere considerati due opposti, perché i cittadini hanno il potere sovrano.
È risaputo che noi impariamo facendo. Le competenze necessarie per essere un legislatore sono meglio apprese se siamo coinvolti nel processo legislativo. Le procedure di referendum e di iniziativa in una democrazia diretta facilitano questo più che in una democrazia rappresentativa, dove la mancanza di adeguate procedure impedisce alle persone di sviluppare il tipo di abilità politiche di cui hanno bisogno i legislatori. La democrazia diretta dà ai cittadini ulteriori possibilità di formulare proposte e di controllo politico, indipendentemente dalla volontà di governo e Parlamento. Così è meglio equipaggiata per garantire che “minore sia l’esposizione alle menzogne e i contratti siano rispettati, è impedito il favoritismo ed emerge la qualità“. Questo costruisce la fiducia reciproca tra i cittadini e contribuisce a rafforzare la coesione sociale. In breve, la democrazia diretta è anche un modo istituzionalizzato di creazione politica della fiducia tra i cittadini. Essa appartiene a quelle istituzioni vitali in base al“rafforzamento e difesa“, e offre una “sfida per la democrazia e la condizione per la sopravvivenza“.

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