mercoledì 17 ottobre 2012

Alitalia, tre ragioni di una ferita aperta




Speriamo non mettano per l’ennesima volta mano ai denari pubblici, come troppe volte in passato e come sta riaccadendo con Ansaldo Trasporti ed Energia malgrado ci siano compratori di mercato. Parlo di Alitalia. Non sono purtroppo una sorpresa, i 690 gli esuberi comunicati ieri ai sindacati  dall’amministratore delegato di Alitalia, Andrea Ragnetti, per un risparmio di circa 30 milioni di euro. Trecento assistenti di volo, 300 dipendenti dello staff di terra e 90 nella manutenzione, si aggiungono alle migliaia di dipendenti di troppo individuati quando avvenne la fusione con Cai, alla nascita del governo Berlusconi. Esuberi che al contribuente italiano sono costati molto cari, visto lo scivolo fino a 7 anni per loro previsto. Ma se ne parlava da mesi, considerate le perdite raddoppiate a 201 milioni per Alitalia nel primo semestre di quest’anno. Il pareggio operativo invano rincorso per tre anni da Roco Sabelli era ben lungi dall’essere conseguito.
La perdita operativa in termini di Ebit raggiungeva i 169 milioni, 101 milioni peggio del primo semestre 2011. L’indebitamento finanziario netto al 30 giugno era pari a 862 milioni, e il patrimonio netto che a fine 2011 era di 479 milioni, a metà 2011 era più che dimezzato. I capitali iniziali  messi tre anni prima dalla ventina di soci italiani, 847 milioni ai quali si erano sommati oltre 300 di Air France, si erano ridotti a poca cosa e di questo passo l’aumento di capitale diventava obbligato.
Proprio per fronteggiare questo cattivo andamento da marzo ragnetti è succeduto a Sabelli, ed è stata cambiata l’intera prima fila del management nell’offerta commerciale come nell’organizzazione della flotta. Ma i ricavi sono continuati a salire di qualche punto solo tagliando capacità. Così altri 690 dipendenti si sommano ai 700 in cig dal novembre 2011. E non sono stati rinnovati i contratti a 300 stagionali.
In realtà, la difficoltà perdurante di Alitalia si deve a tre distinte cause. Ed è inutile parlare di “piano irricevibile”, come hanno fatto ieri alcune fonti politiche e sndacali. Perché sono tutte e tre ragioni di ordine strutturale.
La prima ha a che fare con la gravità internazionale e italiana della crisi del trasporto aereo. L’eurocrisi nel 2012 affonda il coltello nei grandi vettori nazionali, i non low cost. L’Air France con le sue perdite record miliardarie non potrebbe oggi permettersi l’acquisizione di Alitalia, da anni promessa non mantenuta, osteggiata da molti ma che era anche nel mirino di Sabelli. Persino Lufthansa è alle prese con una vertenza durissima col suo personale di volo. L’Alitalia non fa eccezione, schiacciata com’è su una flotta di 155 velivoli ammodernata sì grazie all’operazione CAI, ma schiacciata sul breve e medio raggio che è il segmento a minor margine.
La seconda dipende dal fatto che nel frattempo l’Italia non si è portata avanti nella promessa strategia di ottimizzazione del sistema aeroportuale. Il piano promesso di segmentazione tra basi di rilievo nazionale e internazionale e locali suscita le solite proteste e resistenze. Si è riaffacciata l’idea di riconcentrare traffico da Linate a Malpensa, e in 24 ore la cosa non ha più avuto seguito di fronte alle proteste.
La terza ragione è che di fatto così continuando la promessa-obiettivo di tornare a potenziarsi sul lungo raggio non sembra raggiungibile. Il flusso   a medio raggio europeo dalle basi aeroportuali del NordItalia continua ad alimentare traffico internazionale ed intercontinentale a vantaggio dei vettori nordeuropei, e da anni ormai il traffico cargo italiano passa assai più da Francoforte con Lufthansa che da Malpensa e Alitalia.
L’unica vera alternativa alla fusione con Air France oggi in naftalina è  il riorientamento dei flussi verso gli scali e i ricchi vettori del Golfo Arabico e degli Emirati verso l’Asia, stante che la liberalizzazione del traffico internazionale è di là da venire. Ma c’è da scommettere che piuttosto la politica italiana preferirebbe l’intervento di capitali pubblici, del Fondo Strategico o della Cdp che torna ormai di moda a ogni partita che riguardi  le grandi reti italiane. Sarebbe un errore, perché in ogni caso il denaro pubblico – come non bastasse quello sprecato per decenni in Aliatlia e anche nel suo salvataggio – non è in grado di dare una risposta né a una strategia di internazioalizzazione stand alone cioè condotta in solitudine, né dà più forza a un’ipotesi di fusione con altri. Perché e’ quest’ultima, anche se non piace alla politica e a tanti media, la soluzione alla quale guardare una volta raddrizzato il conto economico.

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